stili di attaccamento e psicopatologia genitoriale

Stili di attaccamento e psicopatologia genitoriale a cura di Nica Raffo

Molte ricerche si sono occupate di mettere in relazione la psicopatologia dei genitori con l'insorgenza di un attaccamento insicuro nei loro figli. Inutile sottolineare l'importanza di queste evidenze, alla luce del ruolo centrale che il tipo di attaccamento maturato nell'infanzia riveste nel modo in cui  le relazioni saranno vissute nel corso dell'intera esistenza.

I pattern di attaccamento infantile sono stati  studiati tramite una particolare procedura, la Strange Situation, nella quale il bimbo e sua madre, vengono introdotti in una stanza piena di giocattoli, dopodiché, in diversi momenti il piccolo viene lasciato solo, oppure in compagnia di un estraneo, per poi farlo ricongiungere con la madre.

Questi stili di attaccamento sono stati divisi o sulla base della sicurezza/insicurezza oppure sulla base dell’organizzazione/disorganizzazione in: attaccamento sicuro, insicuro-evitante, insicuro-ambivalente e insicuro-disorganizzato, identificato successivamente agli altri.

Uno dei fattori più importanti nello sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro, emerso da queste ricerche è la “sintonizzazione” tra madre e bambino, ovvero quella capacità che permette alla madre di “entrare” nella mente del figlio, comprendere i suoi bisogni e di rispondere in maniera adeguata. In particolare sono stati gli studi  di Ed Tronick, noti come Still Face Experiment a lasciare emergere l'importanza di questo genere di esperienza per il bambino.

Caratteristica distintiva del pattern dell'attaccamento insicuro evitante è la difficoltà nello stabilire una relazione significativa e stabile con la figura di attaccamento, condizione che genera dolore emotivo e che porta il bambino ad avere difficoltà nel riconoscere nel genitore una base sicura, in cui trovare sostegno e conforto.

Si tratta di bambini che si sono trovati, nel corso del primo anno di vita, ad interagire con figure di accudimento evitanti e poco accoglienti, che non hanno risposto alle loro richieste, che si sono rifiutati di aiutarli o hanno espresso rabbia quando i figli si sono avvicinati a loro. Un parenting pertanto caratterizzato da freddezza, distacco emotivo, minimizzazione dei rapporti, nei quali non si parla con il piccolo né lo si ascolta.

Questa esperienza di non sintonizzazione è talmente tanto ripetuta, che il bambino impara a rinunciare all'aiuto e al sostegno della figura di accudimento, a dissimulare le sue emozioni, specie quelle relative all'attaccamento e a reprimere le manifestazioni dei propri bisogni fisici ed emotivi. 

 

L'attaccamento insicuro evitante è frequentemente associato ad una specifica condizione psichiatrica di uno dei due genitori: la depressione. Le madri depresse mostrano minore calore emotivo nel rapporto con il proprio figlio, meno sensibilità alle sue manifestazioni di disagio, sono sostanzialmente meno coinvolte e di conseguenza coinvolgono di meno in attività condivise il proprio bambino. Possono mostrare un atteggiamento più critico e ostile nei suoi confronti, stili interattivi più distaccati o intrusivi con, in entrambi i casi, ripercussioni negative sui bambini quali riduzione dell'attività, risposte disforiche, isolamento emotivo, rabbia.

Un genitore nella fase prodromica del disturbo schizofrenico, caratterizzata da sintomatologia negativa, (appiattimento affettivo e dell'eloquio), potrebbe determinare uno stile di attaccamento evitante.

 

Se il genitore si trova nella fase della sintomatologia positiva della malattia schizofrenica, più frequentemente suo figlio può sviluppare uno stile di attaccamento disorganizzato.

Questi bambini manifestano comportamenti disorientati e apertamente conflittuali in presenza del genitore, steriotipie, disorientamento, paure e preoccupazione in sua presenza.

Alcune ricerche hanno messo in evidenza che all'origine dell'attaccamento disorganizzato ci possa essere una figura genitoriale spaventosa/spaventante.

Questa tipologia di caregiver mostra stati mentali confusionari e non integrati che si presentano in modo frammentario, compulsivo,  e imprevedibile, anche quando accudisce il bambino, manifestando sul proprio volto espressioni di paura che ovviamente spaventano l'infante. Questo comportamento spaventante del genitore pone il bambino, in una situazione di conflitto insolvibile : il genitore rappresenta sia l'elemento che gli garantisce il conforto, sia la fonte della sua paura, situazione che genera nel piccolo un conflitto tra due sistemi motivazionali innati, quello di attaccamento che lo spinge a ricercare la vicinanza protettiva del genitore ogni volta che si trova in pericolo, e il sistema difensivo più arcaico, che lo obbliga a fuggire difronte a uno stimolo che incuta paura.

Ciò ha come risultato tutta quella serie di comportamenti disorganizzati che contraddistinguono chi sviluppa questo stile di attaccamento e che possono essere messi in relazione con una figura genitoriale che attua comportamenti afinalistici, incoerenti e contraddittori come un genitore con disturbo borderline di personalità, un genitore affetto da  schizofrenia, o un genitore con disturbo d'ansia generalizzato.

Il DBP è caratterizzato da repentini cambi d'umore, instabilità nei comportamenti e nelle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. L'instabilità è una dei tratti distintivi di questo tipo di organizzazione caratteriale che descrive la loro tendenza ad oscillare tra stati emotivi diversi, come la tristezza e la serenità, la rabbia e il senso di colpa, portando il spesso il soggetto a vivere simultaneamente emozioni contrastanti, creando confusione in chi è piu vicino, sopratutto se si tratta di un bambino. Una persona con dbp può vivere delle vere e proprie tempeste emotive in risposta a eventi relazionali frustranti, come un rifiuto , una critica o una disattenzione, ed il pianto di un bambino piccolo può essere vissuto in questo modo.

Nel tentativo di controllare i propri picchi emotivi, le persone borderline ricorrono all'azione impulsivamente, con esplosioni di rabbia, litigi violenti, abuso di sostanze, abbuffate di cibo, gioco d'azzardo. Possono manifestarsi anche in modo ricorrente atti autolesivi, tentativi di suicidio, comportamenti che agli occhi di un bambino sono spaventanti, impossibili da elaborare, sfociando in uno stile di attaccamento disorganizzato.

Anche un genitore affetto da Schizofrenia può essere considerato spaventoso/spaventante agli occhi di un bambino e far sviluppare al proprio figlio uno stile di attaccamento disorganizzato.

La fase produttiva, detta positiva della schizofrenia è caratterizzata deliri, allucinazioni, sintomi propriamente psicotici, oggetto di spavento sia nel genitore che nel bambino. Il delirio può essere considerato una falsa convinzione basata su deduzioni errate riguardanti la realtà esterna, che viene fermamente sostenuta, contrariamente a quanto credono gli altri.

Le allucinazioni, più frequentemente visive o uditive, invece sono percezioni vissute come reali dal soggetto, che si accompagnano a una credenza intima, malgrado l'assenza di ogni segnale sensoriale. Tale condizione si riflette anche sul bambino, per esempio il genitore potrebbe avere un'erronea credenza sul proprio figlio, convinto di aver visto o sentito qualcosa da parte sua o che lo riguarda, pur in assenza di segnali sensoriali che supportino questa percezione. Il suo comportamento sarà condizionato a seconda del tipo di convinzione del soggetto, se si tratterà di un'allucinazione o un delirio spaventosi, manifesterà paura, ansia, isolamento, agitazione, se si tratta di una manifestazione che il soggetto riesce a tollerare (un giudizio riguardante se stesso che la persona non riesce ad ammettere) potrà esternare un comportamento rabbioso o violento. Questi comportamenti spaventano il bambino che manifesta i tipici atteggiamenti di uno stile di attaccamento insicuro disorganizzato, a causa della mancanza di una base sicura che non gli consente di organizzare un comportamento coerente.

Il bambino con genitore affetto da disturbo da ansia generalizzata può sviluppare un attaccamento insicuro disorganizzato, in risposta alla sua prolungata esposizione alla sintomatologia ansiogena del caregiver. Irrequietezza, costante affaticamento, difficoltà a concentrarsi e vuoti di memoria, irritabilità, tensioni muscolari e alterazioni del sonno si protraggono nel tempo, in assenza di veri e propri eventi esterni scatenanti. L'individuo che vive questa condizione ha difficoltà a controllare la preoccupazione, manifesta disagio e compromissione del funzionamento sociale, lavorativo, familiare. Il suo funzionamento psicosociale è duramente messo alla prova, poiché l'oggetto della sua preoccupazione si sposta continuamente da un ambito a un altro, per cui ogni situazione è percepita come una possibile minaccia. Questo stato di cose si riflette sul bambino, che potrebbe ragionevolmente divenire oggetto di ansia per il genitore. Un eccesso di stato di allerta agita anche il bambino che comincerà a provare la medesima ansia e spavento, sia nelle attività di routine, sia in prossimità della figura di riferimento. In assenza di tranquillità e sicurezza, indispensabili perché il bambino si cimenti nell'esplorazione del mondo, il piccolo potrebbe sviluppare le caratteristiche dello stile di attaccamento insicuro disorganizzato.

 

Caratteristica principale dello stile di attaccamento ansioso-ambivalente è la condizione di intensa contraddizione nella relazione. Affonda le radici nella contraddittorietà dei comportamenti genitoriali. Il bambino percepisce il genitore disponibile in modo discontinuo, a volte la madre è presente, ma a volte assente, può rispondere positivamente o con imprevedibili e repentini cambi di atteggiamento. Per il bambino è impossibile prevedere e controllare le reazioni del cargiver, allo stesso tempo egli non può fare a meno di questa figura, per cui anche il piccolo alternerà manifestazioni rabbiose ed altre di sottomissione.

Diversi disturbi psicopatologici hanno come caratteristica la contraddittorietà, tra questi: il Disturbo Dipendente di Personalità (DDP), il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), il Disturbo di Personalità Evitante (DPE), accomunati dalla preoccupazione, associata ad un costante vissuto di inadeguatezza e di ansia.

La relazione con l'attaccamento ambivalente - resistente nasce dall'eccessivo controllo dei genitori, rispetto a questi disturbi, generato dall'estrema ansia, la cui origine si differenzia in ciascuno di questi tre quadri clinici.

 

Nel DDP il livello di dipendenza affettiva dall'altro è tale da doversi considerare patologico: il soggetto chiede al partner e a chi gli sta accanto un maternage, o al contrario, maschera la propria condizione con un' eccessiva indipendenza. Chi presenta questo quadro va in ansia di separazione e angoscia abbandonica per cui mette in atto comportamenti di sottomissione e dipendenza in modo da legare l'altro a sé. Questo crea un legame ambivalente e patologico dove compiacenza e sottomissione nascondono un bisogno di cure enorme. Questa situazione porta ad un'inversione di ruoli tra caregiver e bambino.

 

Il DPE è un quadro pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza, ipersensibilità al giudizio negativo, evitamento di attività lavorative che richiedano un significativo contatto interpersonale, difficoltà ad entrare in contatto con le altre persone, a meno che non sia convinto di piacere, inibizione nelle relazioni intime, per paura di essere ridicolizzato, preoccupazione di critica nelle situazioni sociali , visione di se come persona socialmente inetta, e inferiore agli altri. Per evitare di incappare in tutta questa serie di vissuti, la persona con DPE tende a non stabilire relazioni intime, mantenendo prevalentemente relazioni familiari consolidate.

Le cause sono da ricercarsi nei legami passati, potrebbe esserci stato un caregiver ingombrante e rifiutante a contribuire alla genesi di questa psicopatologia.

 

Il DOC è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni che interferiscono in modo significativo sulla quotidianità di chi ne soffre. Le ossessioni sono pensieri, immagini, impulsi che si offrono in modo involontario e incontrollato all'attenzione dell'individuo, impedendone la concentrazione e scatenando emozioni negative, spesso ansia. Frequentemente si tratta di fantasie bizzarre, ma la preoccupazione che ne deriva è tale per cui chi ne soffre mette in atto manifestazioni compulsive per controllarle. Le compulsioni sono i rituali che accompagnano le ossessioni, comportamenti ripetitivi fisici o mentali che vengono messi in atto per ridurre l'ansia o la paura innescata dall'ossessione stessa. Si tratta di genitori con una posizione emotiva angosciata e una reazione ansiosa in risposta all'ideazione compulsiva.

 

Tutti questi disturbi sono accomunati da una forte componente ansiosa, e portano il figlio di questi genitori a sviluppare uno stile di attaccamento ambivalente- resistente, alternando quindi momenti di dipendenza e insicurezza a momenti di evitamento e rifiuto, accompagnati da sentimenti di rabbia e frustrazione. L'ansia del genitore si riflette sul bambino, che diviene egli stesso ansioso sia riguardo la disponibilità del proprio genitore, sia nel vedere realizzati i propri reali bisogni di accudimento, rendendolo diffidente rispetto al caregiver e insicuro nell'esplorazione del mondo.


Consigli pratici per contenere ansia e panico durante l'emergenza sanitaria da coronavirus:

Organizza la tua routine quotidiana

Stare a casa dal lavoro potrebbe concorrere a disorganizzare, non solo la vita domestica, ma anche la propria struttura interna, poiché le nostre #abitudini vengono fortemente cambiate e stravolte durante questa emergenza sanitaria. L'acquisizione di nuove abitudini e una nuova organizzazione quotidiana, diventano fondamentali ganci alla nostra #stabilitàpsicologica. Compiere questa riorganizzazione richiede un grande sforzo fisico e mentale. In virtù di questo cerca di essere premuroso con te stesso, ricorda che cambi di routine così bruschi, uniti all'incertezza e alla minaccia di #pandemia influenzano il tuo stato emozionale. Per cui:

- Non stravolgere i tuoi cicli circadiani, confondendo il giorno con la notte o l'orario dei pasti;

- Continua ad avere cura di toglierti il pigiama e l’abbigliamento notturno al mattino e indossare un abbigliamento diurno per sottolineare la discontinuità e organizzare i cicli della giornata, anche se non lasci la tua abitazione;

- Stabilisci nuove routine casalinghe, contemplando esercizio fisico e ore destinate allo studio, o alla lettura, cercando di prediligere attività nelle quali sei attivo;

- Cerca di avere un' alimentazione sana ed equilibrata e mantieniti idratato, la salute psichica passa anche attraverso quella fisica.

 

Utilizza in modo sano social network e mezzi di comunicazione:

- Utilizza gli strumenti tecnologici per mantenere le reti sociali e la condivisione dei tuoi contenuti emozionali con familiari ed amici, prediligendoli a gruppi di chat che diffondono notizie e pensieri negativie catastrofici spesso false o erronee;

-Evita di sottoporti ad eccessive notizie relative alla pandemia, consulta solo fonti verificabili (organismi ufficiali, istituzioni di prestigio e fonti fidate) e solo in momenti stabiliti della giornata. Evita di farlo appena sveglio o prima di andare a dormire;

 

Gestisci spazi domestici e figli:

- Conserva spazi ben distinti, sia fisici che temporali delle giornate;

- Concorda l'utilizzo degli spazi della casa, per ora e attività, sopratutto se hai una famiglia numerosa;

- Alterna momenti di gioco e divertimento che possano promuovere #emozionipositive individuali e di gruppo;

- Parla ai tuoi figli dell’evento in corso, condividi con loro le informazioni ufficiali di cui sei a conoscenza circa il coronavirus, utilizzando un linguaggio adeguato e in maniera onesta. Hanno bisogno di essere accompagnati in questo momento il cui senso sfugge anche agli adulti e che ai loro occhi potrebbe apparire come qualcosa di incomprensibile e quindi non sostenibile.Trovare le parole per parlarne è il primo passo per confinare le emozioni di #paura e #impotenza;

- Non esagerare con i compiti. La quarantena è già stressante e faticosa di per sé e come tale è già una prova di sostenibilità;

- Prediligi la condivisione delle impressioni e dei sentimenti, che possono accompagnare la condotta responsabile, e che tengano conto dello sforzo di ognuno.

 

Se questi accorgimenti non dovessero essere sufficienti a confinare stati di#ansia e#angoscia non esitare a chiedere ulteriore aiuto. Ad oggi un grande numero di professionisti mette a disposizione le proprie competenze per sostenere persone che in questo momento sono maggiormente provate. Se ti senti molto nervoso, triste e ansioso o percepisci che la situazione danneggia o penalizza qualche aspetto della tua vita non esitare a contattarci.

 

A questo link trovi l'elenco dei numeri, regione per regione http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioNotizieNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=4335&fbclid=IwAR0WzVQNWIPbZ6Rekdj9nJ11QUkFHohAHIGu6mGiDQoK3GlCSxfzPpfkmVM

 

 

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Coppie infertili. Emozioni e vissuti, possibilita’ di intervento di Maria Grazia A. Flore[*]

Diventare genitori rappresenta una tappa fondamentale del ciclo di vita, che risente sia del contesto culturale di appartenenza che dello sviluppo individuale. Fare un figlio nel contesto attuale, nonostante numerosi cambiamenti rispetto ad altri periodi storici, conserva un’universale valenza biologica e psicologica. Tuttavia questo percorso, che può apparire naturale e scontato, per diverse coppie può essere ostacolato da difficoltà di varia natura: genetiche, virali, traumatiche e psicologiche.

In Italia circa 100.000 coppie si confrontano con la problematica dell’infertilità, intorno al 30% del totale delle coppie del nostro paese. In Europa l’infertilità colpisce tra il 15% e il 20% delle coppie, e si stima che nel mondo siano tra 60-80 milioni quelle colpite da questo problema (Visigalli, 2011).

    Fino a qualche decennio fa l’infertilità veniva considerata un problema meramente fisico; oggi è risaputo che le componenti psicologiche giocano un ruolo importante sia come elemento causale che come conseguenza dell’iter diagnostico e terapeutico. In un modello biopsicosociale non ha senso pensare a situazioni di infertilità esclusivamente organiche contrapposte a situazioni con origine psicogena.       Ha senso sostenere che il rapporto della persona con se stessa e con il mondo possa influenzare la fertilità, anche quando si riscontrano ostacoli fisici concreti (Solano, 2017).

 

     I vissuti più frequenti che si riscontrano nelle coppie in questa situazione sono: ferita narcisistica che diminuisce la fiducia in  stessi; inadeguatezza a livello sociale; sensazione di essere difettosi, malati, diversi; senso di frustrazione per l’irrealizzabilità di un progetto individuale e di coppia; paura, senso di impotenza, delusione. Talvolta possono subentrare anche problematiche di coppia, comunicative e sessuali. La diade reagisce con sconcerto e si chiede perché proprio a lei sia capitata un’esperienza simile; si attiva per cercare le spiegazioni, che talvolta non arrivano nonostante i progressi medici[1]. Questa reazione di sgomento si sperimenta perché, come ha messo in luce Vignati (2002), la condizione di infertilità di coppia è una variabile imprevista. In genere si pensa di poter aver figli quando lo si desidera, ma questa convinzione oggi si scontra sempre più spesso con la realtà.

Di fronte ad una diagnosi di infertilità, o di sterilità (che è una condizione fisica permanente che rende impossibile il concepimento), la donna può avere anche altre reazioni: sentimenti di rabbia, invidia e rivalità verso le donne che la circondano e verso la propria madre (talvolta inconsci); isolamento perché si sente esclusa dal mondo delle persone fertili. Si possono anche attivare dei comportamenti reattivi, come dedicarsi al volontariato o ad altre forme di accudimento che rappresentano l’equivalente della maternità probabilmente irrealizzabile e la possibilità di ritrovare maggiore equilibrio e sicurezza.

     I sentimenti verso la propria madre possono associarsi a dei conflitti pregressi con la stessa: negli anni sessanta Georg Groddeck riteneva che “le donne che detestano la madre non hanno figli”(1969) ed Hélène Deutsch (1957) stabiliva un legame tra infertilità e difficoltà di identificazione con la figura materna. Oggi tuttavia sappiamo che, se questo ci può dare un orientamento sulle concause psicologiche dell’infertilità, non in tutte le donne con difficoltà di concepimento è presente una storia conflittuale col materno e che ogni donna, con la sua storia e i vissuti soggettivi, è unica.

    Comportamenti reattivi possono comparire anche negli uomini, come le condotte da dongiovannicome tentativo, spesso inconsapevole, di compensare l’inadeguatezza procreativa intensificando le conquiste femminili (Stoller, 1975). Nell’uomo inoltre una reazione frequente è un’intensa ferita narcisistica e incredulità ma con una maggiore difficoltà rispetto alla donna di esprimere le proprie emozioni e cercare supporto (Visigalli, 2011).

    Anche nelle dinamiche di coppia avvengono dei cambiamenti. Tra i partners si possono sviluppare atteggiamenti di sostegno e protezione oppure comportamenti conflittuali che potrebbero, a lungo andare, minacciare la coesione della coppia. Spesso il partner portatore del problema si sente responsabile del mancato concepimento e nei confronti dell’altro partner si sente in colpa. Il partner non portatore del problema può provare rabbia (talvolta inconsapevolmente) ma anche senso di colpa per il fatto di provare questi sentimenti (Visigalli, 2011). La sessualità può diventare sterile e meccanica, finalizzata esclusivamente alla procreazione: il piacere si altera, la sessualità non è più intimità e condivisione. In alcune persone compaiono disfunzioni reattive alla diagnosi di infertilità o sterilità, anche per frustrazione e/o risentimento verso il partner: alterazioni del desiderio, impotenza erettiva secondaria, disturbi dell’orgasmo, mancanza o limitazione dell’eccitazione, insorgenza di sensazioni dolorose (Simonelli, 1996; Vignati, 2002).

    I vissuti negativi sono in genere più intensi se non sono presenti altri figli (infertilità primaria)[2] e se le famiglie di origine non sono supportive: una ricerca mette in luce che la comunicazione della diagnosi alle famiglie d’origine diventa un’occasione per verificare i precedenti legami familiari (Binda W. et al., 1989). Ad un livello profondo le coppie spesso si trovano a soffrire non solo l’assenza di un figlio, ma anche il fallimento. Fallimento dell’essere figli che non sono in grado di far diventare nonni i propri genitori, fallimento talvolta nei confronti dei fratelli minori che sono già genitori e occupano per questo un posto primario. Questo ha a che fare col desiderio di continuare a soddisfare i genitori anche da adulti, che resta essenziale nella vita psichica dell’individuo (Marinopoulos, 2005).

     In alcune famiglie accade che la mancata generatività dei coniugi faccia sentire sterili anche le diverse ramificazioni affettive di cui fa parte la coppia, perché va a minacciare la nascita dei ruoli che un figlio avrebbe permesso (D’Andrea, 2008).

    Più passa il tempo, più l’attesa diventa insopportabile: i fallimenti si moltiplicano e talvolta si sommano anche quelli della Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). Se una prima delusione è difficile da sopportare, ma si accetta, tanti fallimenti diventano insostenibili. Le coppie si scoraggiano pensando che non riusciranno mai a diventare genitori, e diventano sempre più vulnerabili. Nella pratica clinica si riscontra che via via che si procede con le tecniche mediche viene a mancare l’elemento più importante: il desiderio.

Possibili interventi.

     Con quali modalità da professionisti della salute mentale possiamo sostenere queste coppie?

     Innanzitutto dobbiamo avere chiarezza su quali sono le persone che hanno maggiormente bisogno di consulenza psicologica o di psicoterapia, a seconda di ciò che emerge dal processo valutativo (CNOP, 2004):

  • persone che soffrono di forte stress: secondo una ricerca di Boivin (1999) il 15/20% dei pazienti infertili ne soffre;
  • pazienti con anamnesi di psicopatologie: abuso di sostanze, psicosi, disturbi cognitivi; persone con precedenti problematiche di coppia o con precedenti di maltrattamenti su minori;
  • pazienti che richiedono la consulenza genetica preimpianto.

     Le Linee Guida del CNOP (Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi) del 2004 ci indicano anche i fattori che generano un adattamento poco efficace tra i pazienti infertili, suddividendo tra: fattori personali, relazionali/sociali e fattori collegati al trattamento:

     Personali

  • Infertilità primaria;
  • Psicopatologie già esistenti;
  • Genere femminile;
  • Vedere la genitorialità come scopo principale della vita adulta.

     Relazionali/sociali

  • Relazione di coppia disfunzionale;
  • Vita sociale povera;
  • Situazioni o persone che ricordano alla coppia la loro infertilità.

     Collegati al trattamento

  • Effetti collaterali dei trattamenti (es. variazioni ormonali);
  • Situazioni che mettono a rischio la gravidanza (es. minaccia d’aborto);
  • I tempi di decisione: inizio e fine trattamento sono i periodi più critici.

     L’intervento psicologico con le coppie infertili differisce a seconda della fase che la coppia stessa si trova a vivere.

    In una fase iniziale, prima dei trattamenti di PMA, è importante proporre un trattamento individualizzato a seconda della storia della singola coppia; è necessario capire che reazioni psicologiche ci sono state ai tentativi naturali falliti e individuare gli aspetti psicologici che possono essere concausa dell’infertilità. È fondamentale che la coppia si senta libera di esprimere tutti i vissuti legati a questo evento di vita, in una relazione priva di giudizio. È indispensabile altresì non far sentire la coppia come difettosa, in quanto, molto probabilmente, già si percepisce in questo modo.

Gli obiettivi più importanti da perseguire sono il contenimento e il supporto nell’elaborazione della sofferenza, il sostegno emotivo durante la comunicazione della diagnosi, nonché nel maturare la scelta più appropriata in seguito alla comunicazione della/e cause dell’infertilità.

Se la coppia decide di intraprendere un percorso di Procreazione Medicalmente Assistita dobbiamo prestare attenzione a come si approccia all’équipe medica. Spesso accade che ci si avvicini alla PMA con un senso di euforia e grande fiducia nella scienza; tuttavia non sempre vengono raggiunti i risultati attesi e questo può avere diverse conseguenze: sconforto e delusione della coppia per un ulteriore fallimento; maggiore senso di impotenza; passare da un atteggiamento (difensivo) di idealizzazione dell’équipe medica alla sua estrema svalutazione (Castellano et al., 2011).

Durante i trattamenti di PMA si oscilla tra la speranza delle attese ottimistiche e la delusione per il fallimento. L’intervento psicologico deve accompagnare la coppia nella scoperta, l’accoglienza e la gestione delle emozioni che prova, favorendo un maggiore esame di realtà.

È fondamentale promuovere le risorse della coppia, che possono essere diverse, come una buona comunicazione e alleanza, la resilienza, una buona consapevolezza ed espressione dei propri vissuti. Si deve inoltre cercare di preservare la sessualità della coppia.

La fine del trattamento può essere un momento estremamente delicato. Chi si confronta con un successo prova gioia e soddisfazione, ma talvolta anche ansia e preoccupazioni durante la gravidanza e dopo la nascita del figlio. Quando invece il trattamento non va a buon fine la coppia si confronta nuovamente col fallimento, il dolore e la maturazione della scelta di continuare o meno i trattamenti. La coppia dovrebbe pensare fin dall’inizio, assieme allo psicologo, quali sono i suoi limiti personali di tolleranza dei trattamenti.

Al termine del trattamento il ruolo dello psicologo sarà quello di facilitare l’elaborazione del lutto di non poter diventare genitori biologici, e quello di sostenere la scelta successiva, che può essere quella dell’adozione o di rimanere una coppia senza figli. In quest’ultimo caso è fondamentale dare loro la sensazione di aver risolto il problema dell’infertilità al meglio delle proprie possibilità; importante è altresì passare l’idea che la coppia può essere fertile in tanti altri modi, non solo procreando.

Quando invece l’esito del trattamento è la gravidanza, oltre ai sentimenti di gioia, incredulità e soddisfazione c’è da considerare che il brusco passaggio da uno stato prolungato di infertilità alla genitorialità è in genere più difficoltoso rispetto alle altre coppie, perché richiede una repentina ridefinizione dell’identità e una ristrutturazione interna. Resta la percezione di se stessi come difettosi, da cui può conseguire il timore di non essere in grado di portare a termine la gravidanza e di partorire un figlio difettoso come loro.

Una volta che il bambino nasce, secondo uno studio di Greenfeld (1996), nelle coppie che hanno concepito con la FIVET, più del 50% delle madri sviluppa un attaccamento così forte al bambino da rendere difficoltoso il processo di separazione/individuazione. Lo psicologo dovrebbe quindi facilitare l’adattamento alla gravidanza e la transizione alla genitorialità, facilitare il processo di separazione/individuazione e sostenere la coppia nel gestire l’ansia sul modo in cui si è concepito il bambino.

È evidente come l’infertilità coinvolga profondamente l’unità biopsichica dell’individuo e della coppia nella sua totalità, e non si può prescindere da questo se si vuole realmente prendere in carico una coppia infertile. Il percorso della PMA è estremamente tecnico, e se non si tiene conto degli aspetti psicologici coinvolti, può finire per banalizzare l’enigma e la complessità del concepimento e del parto, “che non è solo un evento biologico, ma anche e soprattutto simbolico e psichico” (Marinopoulos, 2005).

     È ad oggi molto difficile determinare con certezza le cause psicologiche dell’infertilità, ma gli studi che sono stati presi in rassegna ne documentano chiaramente le conseguenze. È quindi ampiamente indicato un approccio olistico ed integrato, in cui la componente medica e quella psicologica vadano ad integrarsi nell’azione di sostegno alla coppia. Abbiamo visto inoltre come l’infertilità produca una sua evoluzione psicologica concomitante con le varie tappe che scandiscono il cammino diagnostico e terapeutico. Da qui la necessità che queste coppie siano accompagnate da un trattamento psicologico in tutte le fasi. Un trattamento in cui “fornire sostegno, aiuto, e uno spazio in cui la coppia possa occuparsi dell’accettazione del problema e delle proprie reazioni all’infertilità, può significare riappropriarsi del senso del tempo della speranza e dell’attesa”  (Vignati, 2011).

 

 Bibliografia

Binda, W., Greco, O., Colombo, T. (1989), “La nascita di un figlio nella trama di una famiglia estesa”, Attraverso lo Specchio. 23.

Boivin, J.,  Scanlan, L.C., Walker, S.M. (1999), “Why are infertile patients not using psychosocial counselling?”, Human Reproduction. 14 (4).

Castellano, R., Grimaldi, N., Malzoni, A., Pagliarulo, M., Pirone, N., Sarno, R. (2011), “Il trattamento dell’infertilità: Considerazioni psicodinamiche sulla relazione di ‘cura’”, Rivista di Psicologia Clinica. 1.

Deutsch, H. (1957). Psicologia della donna. Torino: Boringhieri.

Greenfeld, D.A., Ort S.I., Greenfeld, D.G., Jones, E.E., Olive, D.L. (1996). “Attitudes of IVF parents about the IVF experience and their children, Journal of Assisted Reproduction Genetical. 13:266-274.

Groddeck, G. (1969). Il libro dell’Es. Milano: Adelphi.

D’Andrea, A. (2008). “Sterilità biologica: la morte del desiderio”. In: Andolfi, M., a cura di, La crisi della coppia. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Marinopoulos, S. (2005). Nell’intimo delle madri. Luci e ombre della maternità. Milano: Feltrinelli.

Simonelli, C. (1996), Diagnosi e trattamento delle disfunzioni sessuali. Milano: Franco Angeli.

Solano, L. (2017), “Il rapporto corpo-mente e la qualità delle relazioni nella costruzione della salute”. In-fertilità. Un approccio multidisciplinare. Atti del I Convegno Nazionale, Roma.

Stoller, R.J. (1975), Sex and gender. London: Hogarth.

Vignati, R. (2002), “L’assessment sessuorelazionale eseguito con una nuova metodica”, PsicoIn. 1 – Informazione Ordine Psicologi Marche.

Vignati, R. (2002), “Il problema della sterilità nella coppia: una variabile imprevista”. Benessere e salute.

Vignati, R. (2011), “Il problema della sterilità nella coppia: scenari di un evento imprevisto tra desiderio e frustrazione”, Psychomedia.

Visigalli, R. (2011), Sterilità e infertilità di coppia. Counseling e terapia psicologica. Milano: Franco Angeli.

[*] Psicologa, Psicoterapeuta, docente di Psicologia Perinatale.

[1] In diversi casi, dopo aver completato l’iter delle indagini mediche, il responso è di infertilità sine causa (inspiegata), cioè situazioni in cui non si riesce ad individuare una causa oggettiva.

 

[2] Si parla di infertilità primaria quando la coppia non ha mai avuto gravidanze, secondaria quando c’è stata almeno una gravidanza portata a termine con concepimento spontaneo


Cosa sono le costellazioni familiari. Edoardo pera


E’ un metodo elaborato da Bert Hellinger, che consente di scoprire, portare alla luce e sciogliere “irretimenti” familiari che si trasmettono di generazione in generazione e che sono causa di malattie e disturbi psichici e fisici.

Le Costellazioni Familiari hanno avuto origine da una serie di osservazioni che diversi psicoterapeuti e psicoanalisti avevano fatto durante il loro lavoro con i pazienti. Le osservazioni avevano messo in evidenza come alcuni dei problemi dei pazienti rimandavano a tematiche analoghe manifestatesi in ambito familiare anche a distanza di generazioni. Queste dinamiche apparivano quindi non direttamente riconducibili, o non solo, a quelle della famiglia nucleare, costituita dai genitori, fratelli e sorelle. Anche la loro elaborazione sembrava richiedere una dimensione più ampia, che includesse un “campo familiare” in senso esteso. Il grande merito di Hellinger è di avere trovato un modo per lavorare su questi contenuti che non fosse puramente “intellettuale”, ma che coinvolgesse le persone nella loro profondità.

Attraverso le Costellazioni Familiari alcuni processi destinati normalmente ad agire nell’ombra possono diventare consapevoli e nello stesso tempo possiamo ristabilire il collegamento con le forze vitali delle origini, in accordo e all’unisono con gli “ordini dell’Amore”.

Possiamo infatti vedere come la nostra vita spesso venga condizionata da sentimenti e comportamenti che non sono nostri ma che appartengono ad altri membri della famiglia,  a volte con persone scomparse da tempo. Il lavoro con le Costellazioni Familiari mostra chiaramente che esiste un vincolo particolare, come un legame biologico, con tutti i membri della nostra famiglia, intesa nel suo senso più ampio. Questo contrasta con la nostra immagine di noi stessi come realtà separate, solamente individuali. Eppure facciamo tutti parte di una lunga catena di vite, siamo parte integrante dell’enorme processo evolutivo. Da migliaia di anni i genitori trasmettono la vita ai figli e noi siamo legati a coloro che ci hanno preceduto e a tutti quanti fanno parte del nostro “campo familiare”. Questi legami, spesso invisibili, esistono anche con quei membri della famiglia che non abbiamo mai conosciuto e di cui non abbiamo mai sentito parlare.

Secondo quanto emerso nelle Costellazioni familiari, ogni famiglia è un campo di coscienza collettivo, che va oltre l’individualità. E’ sottoposto a delle leggi, a un ordine. Quando questo ordine viene violato, per esempio con l’esclusione di un membro della famiglia o subisce un’interruzione (per morti precoci, separazioni o altri avvenimenti traumatici), nasce il disagio. Finché una persona è esclusa o dimenticata, nel sistema agisce una pressione affinché un successore in qualche maniera ne “prenda il posto” e ne “assuma il destino”, identificandosi con lui, a volte imitandone il destino negativo come una malattia o la morte precoce. Si parla allora di “irretimento”.

E’ quindi per amore si soffre, ci si ammala e a volte si muore. E’ un amore cieco e arcaico, un movimento di compensazione che mantiene l’origine della tensione. Il compito del costellatore è quindi quello di aiutare le persone, se possibile, a trasformare questo amore cieco in un amore al servizio della vita e del suo flusso.


L'ADOLESCENTE, LA FAMIGLIA, LA SOCIETÀ.  Piero Paradisi*


La freccia del tempo neghentropica indica i passaggi del Sé attraverso le varie fasi di sviluppo. Esse sono caratterizzate da una crescente complessità strutturante. In queste fasi il Sé è in relazione con Campi energetici che hanno dominanza in quel tempo. I passaggi prevedono sempre dei processi di separazione che possono rivelarsi oltremodo traumatici se l’individuo non è pronto o non ha gli strumenti necessari per affrontarli.

Gli schemi comportamentali che il Sé mette in atto, come i più economicamente validi, sono in realtà la riedizione di frattali (schemi) psico–comportamentali riproposti a livelli di complessità maggiore, la cui origine risale a tempi analitici più arcaici (intrauterino, passaggi legati al parto, fase orale, ecc.). 

Il periodo dell’adolescenza è un momento critico nella vita di un individuo. Dopo la fase di latenza, che potremmo definire come un periodo di stabilità post edipica, nella pubertà si riaccendono le pulsioni sotto la spinta impetuosa della sessualità. Il passaggio al terzo Campo è un momento in divenire ricco di travagli, in cui la sessualità è il motore propulsivo. Intendiamo per terzo Campo tutti quegli elementi, di ordine relazionale e sociale, al di fuori della famiglia, che assumono un’importanza prevalente, come attrattori/formatori, in quel tempo del Sé in cui vi è la prospettiva dello sbocco dell’individuo nella genitalità. Questa fase segna una tappa fondamentale per una nuova individuazione del Sé, ma è al contempo ricca di incognite e conflitti.

La freccia del tempo neghentropica segna, dunque, le tappe evolutive e strutturanti di un individuo. Le fasi evolutive si succedono secondo salti quantici di energia crescente, a complessità maggiore, caratterizzati da fasi di passaggio critiche per il soggetto, dove si propongono/ripropongono le tematiche di separazione.

Queste fasi sono: il parto, lo svezzamento, l’uscita edipica, la pubertà. Il Sé compie un processo di separazione e di adattamento economico a nuove entità relazionali e vitali, lungo un percorso temporale non strettamente cronologico tout court, ma piuttosto secondo un tempo interno e soggettivo (Ferri, Cimini, 2012). (fig. 1)

 

FASI EVOLUTIVE

LIVELLI CORPOREI

TRATTI DEL CARATTERE

CAMPI

SUB SISTEMI CENTRALI

SUB SISTEMI PERIFERICI

G.O. 2°

GENITALE

NEOCORTEX

SIST.

PSICHE

G.O. 1°

ISTERICO

FALLICO

NEOCORTEX

SIST.LIMBICO

SIST.

PSICHE

MUSCOLARE

COATTO

SIST. LIMBICO

SIST. MUSCOLARE STRIATO

ORO

LABIALE

ORALE

SIST. LIMBICO

SIST.

NEURO

VEGETATIVO

INTRA

UTERINO

INTRA

UTERINO

SIST. LIMBICO

R-COMPLEX

SIST.

NEURO

VEGETATIVO

SIST.

NEURO ENDOCRINO

               Fig.1 La freccia del tempo neghentropica e il Modello S.I.A.R.

 

Nel passaggio al terzo Campo, il soggetto si confronta con diverse tematiche, ognuna di essa è una potenziale fonte di crisi. Consideriamo quella che forse è la più rappresentativa: la crisi di identità innescata dai meccanismi puberali. La pubertà porta il soggetto a cambiamenti eclatanti dei parametri fisici, comportamentali ed emozionali. Si percepisce una spinta vitale funzionale alla ricerca di nuovi elementi di identificazione. Si cercano ancora riferimenti nel passato secondo un desiderato continuum, ma la realtà vuole che il passaggio avvenga piuttosto per crisi. La crisi del secondo Campo (famiglia) si appalesa ora in tutta la sua drammatica ma fisiologica crudezza.

L’adolescente comincerà a sviluppare il pensiero logico deduttivo, con la maturazione delle capacità logiche (di valutazione della realtà), di astrazione e di simbolizzazione. Queste ultime lo porteranno a percepirsi con un nuovo senso di onnipotenza, sostenendolo, inoltre, nello sforzo di separazione dalla famiglia. Il soggetto sarà indotto a formulare nuove regole di adattamento soggettive alla realtà. La famiglia resta, tuttavia, il nucleo di partenza di tale processo. Se nelle fasi precedenti di maturazione e crescita del Sé si è verificata una sana introiezione di essa, allora l’adolescente sarà in grado di separarsi in modo armonico e con un trauma da separazione che potremmo definire fisiologico. La costruzione della nuova identità passa anche attraverso la messa in discussione della famiglia, con il bagaglio di valori e ritualità che le appartengono (Pandiscia, 2010).

Nella ricerca di nuovi modelli di identificazione, l’adolescente individua e riconosce come mito, una persona adulta che possiede le capacità di impersonare il suo desiderio. In quest’ottica il mito si riveste di un’aura di sacralità inattaccabile. Nell’epoca di ri-costruzione dei propri parametri relazionali, il mito interpreta quei fattori che rivestono un’importanza vitale per l’adolescente: la visibilità, la popolarità fra coetanei, la sicurezza nei rapporti con l’altro sesso. Nel mondo dell’adolescente sono questi ultimi i parametri che delineano lo status nel gruppo, non quelli stabiliti dagli adulti, come ad esempio il successo scolastico (Stramaglia, 2010).

Molto importante e fondamentale per lo sviluppo dell’identità di terzo Campo è la scuola. Nella scuola si propone all’adolescente una scena fondamentale per la sua crescita: la presenza di adulti diversi dai genitori e la relazione con i coetanei. La condivisione di esperienze, l’acquisizione di competenze, le nuove e inevitabili frustrazioni e gli entusiasmi esaltanti, rivestono un’importanza fondamentale per la costruzione dell’identità personale.

Neuropsicologia

Il cervello dell’adolescente è un organo in fase di sviluppo, in cui non si sono ancora conclusi, in modo definitivo, i processi maturativi.

Il cervello di un adulto possiede in media un buon 30% in meno di neuroni rispetto alla nascita. Dove sono finiti quei neuroni? Buona parte di essi è stata eliminata dai processi di sfoltimento neuronale, rispondenti alla logica evolutiva di favorire soltanto i neuroni utili al funzionamento globale del Sistema Nervoso (SN). Gli altri neuroni vengono eliminati perché funzionalmente non utili, in particolare quelli che non hanno sviluppato connessioni e dunque formato reti neuronali. Sicuramente lo sviluppo maturativo del SN si attua in base alla formazione di connessioni. Alla nascita l’essere umano possiede innumerevoli potenzialità di stabilire connessioni neuronali utili alla vita, ma solo l’evoluzione stabilisce quali di esse siano realmente utili.

Il processo di maturazione e di stabilizzazione delle reti neuronali si avvale della mielinizzazione delle terminazioni nervose. Nella mielinizzazione il citoplasma delle cellule gliali si avvolge attorno all’assone del neurone, fino alla periferia sinaptica, funzionando come l’isolante del filo elettrico. In questo modo la propagazione dello stimolo sarà enormemente più efficiente e rapida.

Tuttavia, essendo il processo irreversibile, la connessione neuronale diventerà definitiva, non essendo più possibile stabilire con essa altre connessioni sinaptiche. Se da un lato la maturazione mielinica implica un maggior grado di efficienza, di contro non si potrà tornare indietro e si perderà la primitiva plasticità e potenzialità di formazione di reti sinaptiche.

La corteccia cerebrale e in particolare quella dei lobi prefrontali agisce, fondamentalmente, con meccanismi di tipo inibitorio. Il cervello umano che elabora concetti o programma le azioni, funziona soprattutto per imitazione di azioni esterne (neuroni specchio) secondo programmi comportamentali che richiedono il minimo impegno funzionale (sistema 1). Contemporaneamente esiste anche un sistema cognitivo ed elaborativo superiore con assonanze procedurali di tipo mnemonico che richiede un maggior consumo di risorse energetiche (sistema 2). L’inibizione all’azione è una conseguenza del processo maturativo di blocco, o meglio, di modulazione delle pulsioni che spingono all’azione (Kahneman, 2012).Via via che il cervello matura, la modulazione della risposta si fa sempre più precisa. Per questo gli adolescenti, che si trovano in un periodo di incompleto sviluppo delle capacità inibitorie da parte della corteccia cerebrale dei lobi prefrontali, hanno dei comportamenti di tipo impulsivo. Essi non riescono a frenare in modo efficiente la pulsione che spinge all’azione.

Quest’ultima viene spesso agita senza pensare alle conseguenze che può produrre.

L'adolescente e la famiglia

I cambiamenti somatici che gli adolescenti subiscono in questo periodo, dipendono dalla produzione degli ormoni sessuali conseguente alla maturazione delle gonadi. Lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie è un segnale vitale e fortissimo alla riproduzione. L’adolescente, tuttavia, vive la presenza di questi segnali con molta ambiguità: da un lato c’è l’esigenza di crescere, confrontarsi con i coetanei, progettare il futuro, vivere intensamente le passioni (passaggio al terzo Campo); di contro non è ancora del tutto pronto a questo salto, subendo le insicurezze legate al distacco familiare. Egli vive con una sorta di tristezza e inquietudine il pensiero di privarsi del conforto del nucleo familiare e ricorda, con nostalgia, la tranquillità e la spensieratezza del periodo di latenza.

Il conflitto derivante da queste due posizioni contrapposte e la confusività che si genera, possono provocare posizioni aggressive nei confronti della famiglia o di chi è preposto a istituire limiti e regole. Le regole saranno percepite come inaccettabili limiti e confini alla propria smisurata libertà e dunque fonte di gravi frustrazioni (Strauch, 2005).

L’adolescente cerca i suoi modelli all’interno dei suoi riferimenti, con un occhio critico rivolto alla coppia genitoriale. Quest’ultima assume i connotati di coppia sessuata e dunque considerata come un modello possibile da adottare o da rifiutare.

Frequentemente una coppia genitoriale, nell’atto di dar luogo a una nuova vita, riversa il proprio narcisismo in questo progetto. Vi saranno delle proiezioni della coppia sulla prole, che diventa depositaria di tali istanze narcisistiche. Se la coppia riesce a modulare queste proiezioni in senso armonico, la prole potrebbe giovarsene, sentendosi sostenuta nel processo di crescita. Tuttavia vi saranno genitori che non sono attrezzati a elaborare le separazioni dai figli in fase adolescenziale, percependole come eventi estremamente angosciosi e traumatici. In questo caso l’adolescente, trovandosi nella difficile fase di separazione, vivrà il distacco con drammatici conflitti. In effetti, il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza induce nel soggetto una serie di conflitti: la voglia e la spinta biologica alla crescita e il rimpianto della spensieratezza e del gioco, i turbamenti indotti dalla sessualità prorompente e il sentirsi inadeguati ad un rapporto di coppia, e tanti altri.

I conflitti possono degenerare in crisi psicologiche che coinvolgono tutto il nucleo familiare. Ne consegue che la famiglia deve ridefinirsi come modello e cercare gli strumenti più idonei nell’affrontare la crisi adolescenziale dei figli.

Essa stessa è chiamata a compiere un cambiamento relazionale al suo interno, e il rimodellamento dovrebbe essere accettato come un’occasione di crescita, di sostegno e di migliore gestione delle differenze generazionali. Nelle famiglie disfunzionali, al contrario, i conflitti vengono rimossi, negati, oppure vissuti con manifestazioni emotive eccessive e inadeguate.

Non tutte le famiglie hanno la capacità di elaborare questi strumenti senza l’aiuto esterno di uno psicoterapeuta, non essendo preparate a gestire la minaccia di separazione in atto e la frustrazione del loro progetto narcisistico verso la prole.

L’analisi dell’adolescente, coinvolgendo il riassetto relazionale della coppia genitoriale, potrebbe essere l’occasione per un salto qualitativo del rapporto di coppia, cioè un salto quantico energetico che permette ridefinizioni di posizione all’interno di essa. Consideriamo la famiglia come un elemento unitario, un Campo energetico, un’atmosfera che permea la crescita di un figlio. Vista in quest’ottica è intuibile l’importanza fondamentale che essa riveste nell’accompagnare i figli verso le necessarie fasi di separazione.

La famiglia del terzo millennio

La famiglia del terzo millennio è in una fase di profonda trasformazione antropologica al suo interno. Nella famiglia tradizionale nucleare vi è la netta distinzione dei ruoli e delle funzioni genitoriali e i figli sono portatori di tematiche proprie della loro posizione all’interno di essa (come ad esempio l’ordine di genitura, il sesso, ecc.). Nella famiglia contemporanea i ruoli vengono a sfumare, creando confusione nei figli, con la tendenza a privilegiare le posizioni narcisistiche.

Nelle famiglie disfunzionali i conflitti fra i componenti, le tematiche narcisistiche e i temi di separazione non risolti, determinano importanti incomprensioni e provocano disfunzioni tra i componenti del nucleo, primi fra tutti i ragazzi. Nella famiglia narcisistica le relazioni primitive tra i genitori e i figli sono dettate da investimenti narcisistici (dei genitori sui figli) di conferma del proprio Sé. I figli verranno percepiti come un’estensione della famiglia e non come individui autonomi. Con tali presupposti, l’adolescenza dei figli può risultare un periodo critico, in quanto la modificazione dei rapporti relazionali tra l’adolescente e i genitori e la minaccia di separazione proposta dagli adolescenti e percepita dagli adulti, lasciano una traccia importante all’interno del nucleo.

Foto di F. Di Francesco

Potremmo definire l’adolescenza come una sveglia biologica che fa scattare meccanismi sopiti o non risolti all’interno della coppia genitoriale. La coppia, infatti, fino ad ora preoccupata dell’allevamento e dell’educazione della prole, si trova davanti a degli sconosciuti, con esigenze nuove, richieste e comportamenti inquietanti.

La famiglia agisce, inconsapevolmente, come un blocco unico che gioca all’unisono onde evitare il cambiamento (percepito come un elemento inaccettabile e terrificante). La sclerotizzazione nel qui e ora porta all’incapacità di astrazione verso il futuro, considerato come un’incognita minacciosa.

Il figlio adolescente ribelle è un elemento di disturbo della rigida routine familiare: il capro espiatorio, l’elemento perturbante cattivo e ingrato. Il perturbatore potrebbe innescare un grave conflitto familiare, per cui la coppia genitoriale patologica si allea in un processo collusivo funzionale alla consolidazione della coppia.

E’ interessante osservare come detta collusione potrebbe essere legata a tematiche familiari di coppia non risolte, o che si riproporrebbero come frattale trans generazionale.

La scoperta della sessualità dei figli può innescare la riproposizione di tematiche edipiche di gelosia tra padre e figlia o tra madre e figlio. Queste tematiche saranno più accentuate in quei genitori che non hanno vissuto a pieno le esperienze adolescenziali, a causa dell’educazione rigida e repressiva ricevuta. Potrebbe verificarsi un tentativo di riproposizione degli schemi educazionali ricevuti e la conseguente conflittualità con i figli adolescenti (Boccia et al., 2005).

L’evidenza della prorompente sessualità dei figli, porta anche ad una ridefinizione della propria sessualità. I genitori potrebbero avere dei comportamenti tendenti ad esorcizzare le tematiche legate all’invecchiamento e la ricerca del sesso all’esterno della coppia per riconfermarsi come individui sessuati.

La ridefinizione dei ruoli nelle famiglie dell’adolescente può creare delle situazioni paradossali. La coppia genitoriale non accetta il confronto con il tempo cronologico legato all’invecchiamento e in definitiva alla morte. Segnali inquietanti arrivano anche dalla perdita dei propri genitori, che avviene generalmente in questo periodo. Questi messaggi stimolano la famiglia ad assumere comportamenti tendenti ad esorcizzare l’incubo della senilità.

Succede così che i genitori scimmiottino i comportamenti dei figli, ne assumano il linguaggio gergale e si propongano come amici e confidenti dei figli. Non possono rischiare di assumere un ruolo frustrante e regolativo, correrebbero il rischio di essere riconosciuti per quello che sono: vecchi.

Questo tipo di comportamento potremmo definirlo mimetico, in quanto è volto a mascherare i segnali inquietanti del tempo cronologico. Il tentativo è quello di arrestare la freccia del tempo interno e riportarla a uno stadio precedente. Il viaggio a ritroso è una chimera nel senso mostruoso del termine. Il voler combattere l’evoluzione entropica della vita e voler invertire la direzione della freccia neghentropica, è un monstrum fisico ed energetico. Il cambiamento del senso della freccia non può essere che entropico, un ritorno a stati di energia inferiore, meno evoluti e differenziati.

Il passaggio al terzo Campo impone all’adolescente un confronto con una serie di elementi che possono provocare disagio, ansia, insicurezza e aggressività. Un fattore fondamentale è il tempo. Il tempo cronologico attuale privilegia la velocità delle comunicazioni e la rapidità dell’informazione.

Quest’ultima però può rivelarsi disgregata e poco controllata, dunque possibile fonte di confusione per i giovani.

Altro punto essenziale, conseguente al primo, è la rapidità delle trasformazioni sociali e relazionali secondarie allo sviluppo di nuove tecnologie, le quali permettono l’accesso alle informazioni in tempo reale. La pletora delle informazioni e la rapidità della loro obsolescenza, se da un lato potrebbe risultare utile, dall’altro genera anch’essa confusione, in quanto le informazioni peccano di stabilità e vengono contraddette in continuazione (Stramaglia, 2010).

Conclusioni

In definitiva, il terzo Campo rispetto al passato risulta sostanzialmente (forse) più efficiente ma anche più dispersivo. Esso privilegia la velocità rispetto alla prudenza e il capire rispetto al sentire. La società è volta verso modelli politici ed economici che privilegiano la soddisfazione del godimento rispetto alla ricerca del desiderio e vi è confusione e instabilità dei ruoli. Se dovessimo fare reichianamenteun’analisi del carattere del terzo Campo contemporaneo, potremmo affermare che esso risulta sensibilmente meno frustrante e quindi nevrotizzante, rispetto al passato, ma evidentemente più disgregato e più freddo, quindi psicotizzante o quanto meno piuttosto borderline. Il disturbo borderline di comportamento rappresenta una patologia in continuo incremento nella società contemporanea. 

 

Bibliografia

P. Boccia et al., 2005, L’adolescenza. Conoscere e capire i giovani d’oggi. Ed. Psiconline

D. Kahneman, 2012, Pensieri lenti e veloci. Mondadori.

Ferri, G., Cimini, G., (2012), Psicopatologia e carattere, Roma: Alpes 

F. Pandiscia, 2010, L’adolescente in psicanalisi Verso la fine del trattamento. Ed. Psiconline 

M. Stramaglia 2010. Essere adolescenti nella società dell’immagine. Appartarsi, apparire, appartenersi. Da riviste.unimc.it/index.plip/es_s/article/view/51

B.Strauch. Capire un adolescente. Come cambia il cervello dei ragazzi fra i tredici e i diciotto anni.Mondadori.

 

 * Medico di medicina generale Asl Teramo, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R


IL DISTURBO DI ATTACCO DI PANICO di Giuseppe Ciardiello


 

Introduzione

Con questo articolo si intende sostenere l’idea che il comportamento in caso di panico è conseguente ad un certo disturbo relazionale realizzatosi nella prima infanzia e, dato che si esprime in maniera privilegiata col corpo, è agendo sul e con il corpo, che va curato. La conseguenza di tali presupposti è che la risoluzione del comportamento conseguente a questo disturbo, necessita dell’impiego di una relazione che consenta esperienze adeguate e mirate. In psicoterapia la relazione più efficace è quella che utilizza strumenti esperienziali per cogliere le dimensioni psicologiche correlate al vissuto panico.

“Questo lavoro è terapeutico, credo, nella misura in cui 
permette che venga vissuta pienamente l’esperienza…”
(Winnicott, 1971, pag. 84).

Premessa

Questo lavoro è il frutto di diversi anni di impegno volti a sintetizzare un intervento psicoterapeutico finalizzato alla risoluzione dei disturbi di panico partendo dai presupposti dell’Analisi Reichiana. In analisi l’atteggiamento dell’operatore può non entrare nel merito della modifica del comportamento agito mentre in psicoterapia il suo impegno è volto innanzitutto alla risoluzione del sintomo.

Il fatto che nel panico le persone si presentano con un’urgenza per la quale è necessaria una risposta immediata, comporta la necessità di individuare una serie di strumenti capaci di incidere velocemente sugli aspetti problematici. Per noi vegetoterapeuti è allora necessario delineare modalità di utilizzo di esercizi e acting validi ed efficaci nell’immediato; per questo è anche necessario individuare gli aspetti e le dimensioni del panico che possono essere modificati e le modalità con le quali potrà realizzarsi questa modifica.

La spettacolarità del disturbo da attacchi di panico (dap) ha sempre più spinto gli psicologi ad abdicare al tentativo di comprenderlo e delegare agli psichiatri, medici e neurologi il compito di spiegarlo. Tale atteggiamento porta in sé la convinzione di una genesi psichiatrizzante. In questo caso però la spiegazione psichiatrica è tautologica perché nel panico non c’è occorrenza evidente di una disfunzione biologica d’organo o di sistema, mentre l’osservazione clinica sembra autorizzare l’affermazione che il dap è la manifestazione comportamentale di un disturbo relazionale.

Oggi il dap si è imposto all’attenzione di tutti pretendendo una considerazione diversa da quella riservata all’ansia e ai sintomi fobici. Si è passati da un’ignoranza totale in cui non si conosceva nemmeno l’incidenza del disturbo, ad un interesse esteso in cui alcuni autori hanno realizzato diversi impianti esplicativi (Ferri, 2012; Giannantonio et al., 2009; Nardone, 2002; Infransca, 2011).

Come accadeva all’inizio del secolo scorso per i sintomi isterici, in questo disturbo s’impongono all’osservazione anche aspetti corporei e relazionali, aspetti che hanno stimolato l’attenzione dei gruppi di automutuoaiuto (ama) che, sostenuti dalle esperienze americane, si sono organizzati per rispondere ad una estesa domanda di contenimento e condivisione del disagio. In Italia l’esperienza dei gruppi ama, sempre relativamente al dap, è stata organizzata e gestita dalla lidap[1], associazione formatasi nel ’79 e che da allora coordina gruppi autogestiti.

Gli aspetti corporei del dap rendono le psicoterapie ad orientamento corporeo strumenti privilegiati d’intervento in quanto, per esempio, un aspetto interessante del dap è la difficoltà che hanno le persone che ne sono vittime ad individuare le proprie emozioni mentre privilegiano la descrizione del vissuto fisico e corporeo (la sensazione). La descrizione dei vissuti psicologici rimane generica, i termini sono massivi e cumulativi piuttosto che specifici e le sensazioni sono descritte come fossero emozioni. C’è una certa difficoltà a individuare termini adeguati per la descrizione dei vissuti anche se accompagnata da una notevole sensibilità a comprendere gli aspetti empatici.

Inoltre con queste persone i modelli narrativi di sé possono essere evidenziati e discussi e, in un tempo relativamente breve, è possibile pervenire anche ad un recupero delle funzioni integrative.

La domanda delle persone con disturbo di panico è sempre caratterizzata dall’emergenza. Queste persone, tenaci e forti, fin da piccoli si fanno carico di pesi enormi, di responsabilità e di oneri che potrebbero non essere loro, perché sono convinti di dovercela fare da soli e convivono con enormi sensi di colpa che li rendono incapaci di far valere i propri diritti. Quando si arrendono hanno bisogno di un intervento veloce ed efficace mentre una risposta analitica rischierebbe di rivelarsi incapace di cogliere il disagio immediato e di offrire validi occhiali interpretativi del vissuto corrispondente. Questo accade perché nel dap il malessere, pur non essendo a volte reale, è talmente vero da svuotare gli occhi.

La Vegetoterapia Analitico Caratteriale

Molto probabilmente la Vegetoterapia Caratteroanalitica (Vgt), (Navarro, 1998) è il primo vero strumento corporeo nell’ambito delle tecniche psicoterapeutiche. Ha visto la luce dopo parecchi anni di gestazione da che Reich si rese conto del fatto che le evenienze corporee sono equivalenti a quelle psichiche. Parliamo di Identità Funzionale (Mannella 2012, Ferri, 2013) e, ad oggi, la sua maggiore utilizzazione è nell’ambito dell’Analisi Reichiana.

La VgT Analitico Caratteriale si compone di una serie di movimenti (acting) che, con progressione cefalo caudale, percorrono tutto l’organismo in una forma gerarchicamente organizzata. Per ogni acting sono indagate le esperienze vissute, con attenzione particolare alle modalità soggettive di indagine, di vissuto e di relazione con il terapeuta.

L’attenzione ai vissuti e l’indagine che l’accompagna introduce implicitamente ad un aspetto particolare della psicoterapia, che è quello delle dimensioni psicologiche relative all’esperienza in corso. Per esempio, le prime fasi dell’approccio vegetoterapeutico, che includono il massaggio e che in genere sono impiegate per la definizione diagnostica, servono anche per capire come introdurre il lavoro sul corpo, in che modo la cosa può essere vissuta dal paziente e quale può essere il momento migliore per poterlo fare. Per decidere le modalità e il momento è necessario individuare le dimensioni che la persona dispiega nelle relazioni e, in particolare, nella sua relazione con il terapeuta. Le dimensioni psicologiche sono i vissuti che accompagnano i disturbi e che, nell’economia organismica, hanno carattere soggettivo perché sono anche i prodotti della storia individuale. In pratica corrispondono alle coloriture emozionali che ogni persona vive nell’esperienza, in relazione al proprio carattere, e derivano da implicite attribuzioni di senso e di valore alla realtà; quindi sono il frutto delle esperienze precedenti[2].

Dato che in ambito psicoterapeutico è necessario prestare attenzione al disagio immediato e a una sua veloce risoluzione piuttosto che agli aspetti caratteriali, come vegetoterapeuti, pur restando fedeli alla caratteristica principale del metodo che è quello analitico caratteriale, possiamo pensare a strategie alternative di intervento che guardino alle dimensioni psicologiche piuttosto che agli aspetti caratteriali. Tra l’altro per Federico Navarro la vegetoterapia è “…una metodica ricerca e non una tecnica, per conseguire la maturazione delle funzioni” (Navarro, 1998, pag. 32). Questo punto di vista rende possibile considerarla un metodo guida per l’individuazione, la progettazione e realizzazione di eventi esperienziali che, analoghi agli acting, possono essere comunque svolti in un setting terapeutico.

Le dimensioni psicologiche

Le dimensioni psicologiche corrispondono alle configurazioni psichiche e fisiche[3]. Rappresentano i vissuti corrispondenti alle esperienze di appoggio, equilibrio, abbandono, integrazione, tolleranza, attaccamento, dipendenza, forza, stabilità, consistenza, sostenibilità ecc. Le dimensioni psicologiche sono quindi aspetti della personalità che si organizzano in modo corrispondente al carattere. Le emozioni di base, rabbia, vergogna, paura, gioia e disgusto possono essere considerate gli apici di una piramide nel cui corpo si stratificano e si configurano le diverse dimensioni a seconda del carattere, per cui lavorare sulle dimensioni psicologiche vuol dire lavorare sulle diverse configurazioni che influiscono sul carattere in relazione all’emozione che le sovrintende.


Una delle dimensioni più importanti delle esperienze di panico è quella relativa all’integrazione delle funzioni sia fisiche che psichiche, integrazione riconducibile alla formazione dell’Io[4]. In un lavoro precedente (Ciardiello, 2005) ho ipotizzato che il vissuto del dap sia conseguente ad una regressione dell’Io a una modalità di funzionamento identica a quella attiva in un periodo della prima infanzia. L’ipotesi formulata era che l’aggressività autodiretta si manifesta colpendo la forza legante delle diverse funzioni dell’Io determinandone lo scollamento. Di questo antico processo resterebbe memoria organismica nell’incapacità dei sofferenti di dap di rilassarsi e abbandonarsi.

Nelle normali esperienze di rilassamento, insieme all’esperienza di allentamento delle tensioni, conserviamo anche quella della capacità legante delle funzioni integrative perciò avvertiamo il rilassamento senza aver paura di perderci. Nel dap invece il rilassamento si accompagna al vissuto di disintegrazione e della paura di non sapere/potere ripristinare l’integrazione precedente. È questo a rendere difficile, se non impossibile, a queste persone abbandonarsi e lasciarsi andare alla fiducia di sé e degli altri; per loro lasciarsi andare significa sfilacciarsi e perdersi perché temono di non saper ritrovare l’unità originaria e non sentono di possedere la capacità e la forza di ritornare ad essere integrati.

L’originaria sensazione/emozione di non-integrazione è presente fin dalla nascita (Winnicott, 1991) e i bambini, pur sentendola fin da allora, cominciano a capirlo quando le funzioni elementari si integrano e realizzano schemi sempre più complessi di comportamento, consoni alle attese delle persone che si prendono cura di loro. Questi schemi, sia fisici (corporei) che psichici, sono relazionali (legati al gruppo di appartenenza) e rendono le esperienze modalità plastiche di comportamento e di apprendimento. La conservazione di questa plasticità è la caratteristica che ci permette di rivivere momenti di rilassamento profondo e godere di momenti di non-integrazione in quanto consente di passare da una modalità di funzionamento all’altra senza perdere il senso di unità organismica.

Nel dap le relazioni primarie vengono vissute con la paura dell’abbandono (di essere abbandonati e quindi di abbandonarsi) e ciò alimenta una rigida organizzazione funzionale in cui gli aspetti processuali dell’Io perdono la loro caratteristica plasticità. La conseguenza è che ogni momento successivo, suscettibile di riprodurre un’esperienza di non-integrazione, è evitato perché vissuto come disintegrante. Perciò la dimensione dell’abbandonarsi (mollare, lasciarsi andare, rilassarsi), metaforicamente riconducibile anche alla dimensione dell’abbandono analitico, al setting, al terapeuta, nel dap va affrontata per ultima.

Per questo disturbo la personalità si organizza configurando le seguenti dimensioni psicologiche: fiducia, equilibrio, centratura e coordinamento, rabbia, abbandono.

Dato che qualsiasi carattere può dare luogo a questo disturbo, organizzando diversamente le dimensioni, per ogni carattere diventa importante organizzare diversamente l’impianto terapeutico senza trascurare il fatto che la modifica di ogni dimensione incide sulla personalità complessiva. In ogni caso quella dell’abbandono sarà sempre l’ultima esperienza a essere proposta e indagata.

Il tradimento dello sguardo

Un mito molto suggestivo, riportato da Igino, uno scrittore romano del II secolo d. C., ci parla di una dea molto singolare: Cura. Secondo il mito, mentre Cura stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Era intenta ad osservare che cosa aveva fatto, quando intervenne Giove. Cura lo pregò di dare lo spirito alla forma: Giove acconsentì volentieri e la forma divenne un uomo. Cura allora pretese di imporre il proprio nome alla forma umana, ma Giove non acconsentì e volle che fosse imposto il proprio. I due disputavano sul nome, quando intervenne anche la Terra, reclamando che fosse imposto il proprio nome, perché lei aveva dato alla forma una parte di se stessa. I contendenti elessero Saturno a giudice, che emise la seguente salomonica sentenza: “Tu, Giove, hai dato lo spirito e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra hai dato il corpo, e riceverai il corpo. Ma fu Cura che per prima diede forma a questo essere, e per questo fin che vive essa lo possederà”.(Sandro Spinsanti, presentazione al volume di Catello Parmentola, 2003 Prendersi cura; il soggetto psicologico e il “senso dell’Altro” tra clinica e sentimento; Giuffré ed.)

I miti rappresentano per tutti noi un riferimento importante nella definizione di alcuni concetti, perché colgono aspetti singolari delle relazioni.

Nel mito di Cura lo sguardo si pone su un essere che rimanda alle dimensioni creative del dare forma, attività che pone la nascita della vita in relazione al desiderio di Cura. Quando c’è veramente il desiderio di curare, la forma prende vita e diventa persona. Quindi è il desiderio di chi cura (e si cura) che carica di presupposti e aspettative la matrice e le dà forma.

Da un punto di vista non meno suggestivo le neuroscienze, i teorici dell’attaccamento e i teorici intersoggettivi, ci suggeriscono un punto di vista analogo, individuando nelle prime relazioni sociali i modelli che stimolano il formarsi della mente e della personalità (Carli e Rodini, 2008). Queste relazioni danno forma originaria al nostro modo di pensare e incidono storicamente il divenire individuale, costruendo e stratificando nella biologia dell’organismo le integrazioni progressive dell’autonomia (Ciardiello, 2013; Mele, 2012). Le azioni che compiamo s’integrano sempre di più alimentando e alimentate dai processi mentali che da esse stesse derivano. Quindi è il nostro corpo che agendo fa esperienza e così produce il materiale primario perché la mente realizzi un analogo mondo nello spazio più riservato dell’individualità.

Gli eventi relazionali sono talmente significativi da indurci ad utilizzare il termine imprinting, che notoriamente caratterizza un comportamento etologico, anche in ambito umano. Ma rispetto al comportamento animale l’attaccamento umano è determinato da caratteristiche che, pur avendo una base biologica, sono specifiche della nostra specie, hanno una base evolutiva e sono indissolubilmente legate alla nascita della mente. In questo gioco di similitudine e differenze è nello sguardo in particolare che la specie umana afferma la propria priorità al punto che, in ogni gruppo sociale, in ogni relazione e in ogni individuo per ogni relazione, è possibile individuare una grammatica e un gergo specifico per l’interazione visiva (Serra et aa., 1993).

I teorici di cui sopra hanno scoperto e ratificato quello che tanti genitori già sapevano, che cioè con i bambini molto piccoli la comunicazione primaria avviene per mezzo dello sguardo e chel’intenzione comunicativa è già presente, nell’intensità dello sguardo infantile, fin dai primi momenti dalla nascita. I bambini molto piccoli si accorgono da subito che l’organo dello sguardo è quello più capace di interagire con gli altri umani che, in quel momento della loro vita, rappresentano il mondo. I successivi eventi di rottura e riparazione, per generalizzarsi alle altre manifestazioni comportamentali, quelle per intenderci relative alle altre modalità sensoriali degli scambi interattivi, necessitano di essere sperimentati e sviluppati innanzitutto in ambito visuo/oculare.

Questa dipendenza dall’interazione visiva testimonia l’esistenza di una notevole forza dello sguardo in ambito comunicativo, forza che s’impone producendo echi emozionali capaci di istituire rapporti gerarchici e relazioni finemente calibrati. Il bambino cerca nello sguardo della madre (care giver) informazioni utili (approvazione, sostegno, compiacimento, conferma, rifiuto, prescrizione ecc.) per configurare le dimensioni psicologiche necessarie per le corrispondenti funzioni mentali. È come se lo sguardo umano fosse capace di stimolare nell’altro, e in particolare lo sguardo della madre nei confronti del bambino, una capacità collante in grado di legare le funzioni nascenti che così s’integrano e si coordinano. In questo modo si forma l’Io che trova il senso di sé proprio nelle dimensioni rappresentate.

Perché questo Io dive

nti un’istanza solida e capace di organizzare l’esito delle esperienze in un tutto organico e flessibile, è necessario che l’organismo si fornisca di una guida, cioè di un filo su cui impilare le diverse funzioni come le perle di una collana e inoltre, come rappresentato nel mito di Cura, l’Io necessita di attenzione continua e cura costante; ha bisogno d’essere sempre alimentato e confermato in quanto, nato dall’organizzazione metaforica di esperienze corporee, cambia in continuazione corrispondentemente ai cambiamenti delle stesse metafore legate alle continue trasformazioni del corpo. L’Io quindi, derivando dal corpo, ha la forma di un evento/processo (Ruggieri, 2011) che in quanto tale interpreta il mondo agendo; questo agito comprende l’assimilazione delle informazioni (anche e soprattutto relazionali), che determinano le modifiche strutturali del cervello (Legrenzi, Umiltà, 2009). La guida di cui l’Io necessita è nello sguardo di Cura.

Nel dap l’Io si mostra inadeguato nei confronti delle proprie esperienze. Non è in grado di sostenerle né di cogliere i nessi e le caratteristiche utili ad un arricchimento costruttivo della forma (mentale/corporea). Nei resoconti clinici delle persone che soffrono di dap è consueto leggere che fin dai primi esordi del disturbo la prima cosa avvertita è la perdita degli occhi. Questo vissuto, corrispondente alla perdita della capacità di controllo oculare e visivo, comporta la perdita, nell’Io, della capacità di legare le diverse funzioni che portano al controllo e alla coordinazione delle pupille. Con la presenza di Cura, alla fine di questo processo d’integrazione sappiamo di vedere e guardare, sappiamo come lo facciamo, sappiamo di poterlo fare nei modi necessari quando lo vogliamo, nei momenti e nelle condizioni opportune. Nel dap non c’è più Cura…! E l’effetto panico deriva allora dalla perdita di questa capacità; si perde l’Io/occhi e sopravviene una disorganizzazione che si accompagna al vissuto di disintegrazione.

Sintetizziamo dicendo che le persone che non soffrono di panico vivono i momenti di distensione con tranquillità e piacere, conservano la capacità di coordinamento e controllo, preservano la fiducia nelle proprie possibilità e, quando avvertono un allentamento delle tensioni corporee e psichiche, vivono corrispondenti sensazioni che sperimentano con un sano sentimento di non-integrazione; al contrario, chi soffre di panico interpreta quest’esperienza come disintegrante e la vive con terrore.

Il recupero dello sguardo

Nell’ideare un nuovo strumento terapeutico, fin dalle sue prime intuizioni, Reich pensava di dover sciogliere i vissuti congelati nell’organismo. Riteneva che l’uomo fosse vissuto da un’energia che lo forma e che, fin dal concepimento, lo trasforma per mezzo delle esperienze; queste lo colorano storicizzandosi in contratture organismiche. Esiste un grado ottimale di contrazione, al di sopra o al di sotto della quale il movimento diventa disfunzionale. L’idea di Identità Funzionale indica queste disfunzioni come proiezione fisica di un’analoga difficoltà psicologica.

Come spesso accade per tutte le malattie, anche per il panico succede di guardare al dito piuttosto che all’oggetto. Il comportamento panico è l’aspetto appariscente di un disturbo psicologico e possiamo decidere se intervenire sui sintomi o sul disturbo che ne è alla base. Inoltre, essendo il disturbo di tipo relazionale, è su questo che bisogna puntare senza trascurare di considerare che in ambito psicoterapeutico l’efficacia di un apparato tecnico dipende non solo dalla precisione dello strumento, ma anche dal modo in cui l’operatore lo utilizza. Operativamente, mettendo in atto un piano terapeutico, dobbiamo rapportarci all’altro considerandolo nella sua interezza anche quando è portatore di un disturbo, e lo possiamo fare solo partecipando con tutto noi stessi all’esercizio che stiamo proponendo.

 

Come accennato in qualche riga precedente, nell’utilizzo dell’espressione perdita degli occhi in genere ci si riferisce al vissuto di un’epoca di sviluppo, quella delle prime fasi neonatali, in cui non era ancora maturata la capacità di coordinamento e integrazione oculare. In questa espressione però, mentre è implicita l’idea di una regressione, non sempre è chiaro il motivo che l’ha generata mentre sono proprio i motivi supposti della regressione che, una volta individuati e modificati, possono ristabilizzare la funzione stessa. Pertanto supporre che il dap sia il prodotto comportamentale di un evento regressivo, senza accompagnare tale affermazione con una descrizione causale, ci lascia piuttosto impotenti mentre affermando per esempio che il dap deriva da un’emozione di rabbia che, non potendo essere espressa, viene rivolta contro sé stessi allentando il collante integrante, ci permette di guardare ai portatori di questo disturbo come agenti attivi, coinvolti in una relazione nella quale i sintomi sono un tentativo di guarigione, se non altro perché richiedenti cura, e con i quali possiamo cercare di imbastire una relazione che ripristina le naturali capacità leganti.

 

Se consideriamo l’attivazione di questa rabbia come causa della perdita della capacità oculare, possiamo ipotizzarne il recupero proprio agendo su di essa per mezzo della relazione terapeutica e su questi presupposti è possibile ipotizzare un piano di intervento.

 

In presenza di rabbia inespressa, e prima di proporre esercizi di scarica o di recupero energetico, è necessario riparare le condizioni relazionali che hanno prodotto la rottura e dato che, nella presente ipotesi, la rottura è stata determinata dalle figure che non hanno più guardato e vistoqueste persone, quindi non c’è più stata Cura, è necessario che il nostro sguardo sia individuante e cerchi una risposta oculare ripristinando la funzione primaria di Cura. Inoltre, a proposito delle diverse dimensioni psicologiche che possono essere curate scambiandone l’ordine gerarchico a seconda dell’emergenza e dell’urgenza, per ripristinare la dimensione abbandonica è necessario che quelle della fiducia, del coordinamento, dell’equilibrio e della rabbia siano state già realizzate.

 

Allora vediamo nello specifico come un impianto psicoterapeutico può essere svolto in base ai presupposti evidenziati.

 

Il periodo di fissazione del dap lo possiamo ipotizzare in fase muscolare, quando è possibile immaginare che possa realizzarsi il tradimento dello sguardo, e i livelli muscolari coinvolti saranno il 1° (comprendente occhi e orecchie), che rimanda alla formazione dell’Io e delle sue funzioni corporee, spaziali e d’equilibrio, e il 3° (collo) che risponde alle necessità narcisistiche.

 

In VegetoTerapia (VgT) la tecnica principe per la ricerca dello sguardo prevede l’utilizzo di una lampadina e la funzione visiva è indagata facendo fissare con insistenza un punto luminoso. Per un eventuale approfondimento si rimanda al testo di Navarro (Navarro, 1998).

 

Nel dap, considerando valida l’ipotesi della genesi esposta, la perdita degli occhi si accompagna ad una mancanza di fiducia negli altri, in sé stessi e in una mancanza di equilibrio; queste condizioni rendono necessario indagare la funzione della capacità di fissazione oculare (corrispondente alla capacità di concentrazione su di un punto di vista che può anche avere valenza esistenziale e fungere da punto di riferimento) proponendo esercizi alternativi a quello dell’uso della lampadina (che può essere vissuta come intrusiva e persecutoria) dato che l’importante è che sia possibile controllare lo sguardo. In tal senso il proprio sguardo spesso si rivela lo strumento migliore per la cattura di quello dell’altro. È questa un’attività che può essere svolta in qualsiasi posizione, in piedi o seduti, a seconda delle difficoltà che si incontrano nella relazione e in attesa di proporla secondo i canoni della VgT, in quanto le persone sofferenti di dap in genere non tollerano di distendersi e rilassarsi e hanno difficoltà ad accettare l’idea di farsi aiutare. Essendo abituati a farcela da soli, in posizione eretta possono vivere lo psicoterapeuta come una persona loro pari, da cui possono non dipendere.

La tecnica

 

Atrevete! Azzardati!

 

Non è semplice nè facile! Non servono raccomandazioni ed esortazioni, non basta segurie le istruzioni per andare in bicicletta; bisogna salirci e pedalare. Bisogna imparare con l'esperienza a sentire e tenere l'equilibrio, a sentire la fatica e ad avvertire dentro di sè le proprie possibilità. Si impara ad andare in bicicletta facendosi male da soli o seguiti e accompagnati da qualcuno che ti tiene la sella.

 

Ambedue in piedi, terapeuta e paziente, a pochi centimetri l’uno dall’altro si può essere attenti a non distrarsi ancorando gli sguardi; il terapeuta protende le mani piegando i gomiti a 90° così che le braccia siano perpendicolari agli avambracci. Il paziente appoggia le proprie mani su quelle del terapeuta che cercherà di avvertire quanto la persona si appoggia e in quale modo lo fa.

 

Di solito resta leggera; le spalle rimangono tese e tirate in sù, il respiro alto, le ginocchia rigide, il ventre contratto, il collo tirato indietro con la bocca che cerca verso l’alto una via d’uscita. Le persone che soffrono di dap, non avendo mai vissuto l’esperienza del lasciarsi andare ad appoggiarsi su qualcun altro, di solito non lo sanno fare nemmeno col terapeuta. Non sanno quali configurazioni fisiche attivare per arrivare ad allentare le tensioni che li tengono sospesi.

 

Si può provare allora a correggere questa postura tenendo presente che la dimensione da perseguire è la fiducia nei nostri confronti per poi trovare il modo di trasferire questa fiducia nei pazienti stessi. In termini analitici si tratta di attivare un’introiezione.

 

Per realizzare tale obiettivo per noi terapeuti è necessario imparare ad osservare nel dettaglio il corpo che stiamo sostenendo e guardarlo per quello che è; questi corpi, metafora dei vissuti che le persone stanno sperimentando, necessitano di istruzioni elementari e dettagliate per arrivare a capire, non cosa fare, perché l’hanno sempre saputo e l’hanno sempre fatto, bensì come farlo. Il come relazionarsi in maniera diversa da quella che sanno già fare. Si tratta di entrare in concreto in quelle che Reich definiva le vere difese, quelle corporee, che si manifestano non nei contenuti delle cose che le persone riportano, ma nei modi in cui esprimono quei contenuti e costruiscono la relazione.

 

A occhi aperti cerchiamo nello sguardo del paziente la presenza della persona; cerchiamo la conferma della consapevolezza di star guardando i nostri occhi e che dentro i nostri occhi vedono noi. Quando sapremo vedere questa loro presenza allora anche noi staremo vedendo la persona che è dentro quegli occhi e la cercheremo con assiduità e insistenza.

 

I nostri occhi fungono da punto fisso: punto di riferimento cui agganciarsi per tenersi in equilibrio, fulcro su cui appoggiarsi per costruire la fiducia e monito per restare in contatto con noi, presenti all’esperienza, e con loro stessi. Analogamente a questo primo esercizio, in tutti gli acting di VgT, quando sono proposti con atteggiamento terapeutico, è possibile stimolare la presenza mentale. Nel dap questa esperienza può risultare molto utile e chiarificatrice per il fatto che ripropone la replica di quanto è vissuto durante gli episodi di crisi che sono così coinvolgenti da scalzare l’Io e dare l’impressione di imporsi in maniera completamente autonoma[5]. È questo a produrre un’esperienza di inadeguatezza che diventa drammatica quando è sostenuta dalla confusa interpretazione della non-integrazione. È anche la mancanza d’equilibrio, nel disturbo panico, a produrre un’interpretazione disintegrante del normale vissuto di non-integrazione. Perciò il secondo step tenderà al recupero di quest’ulteriore capacità.

Il vissuto fenomenologico dell’equilibrio può essere suggerito dall’esperienza dell’asse d’equilibrio. Realizzata la fiducia con l’esercizio dell’appoggio, si può chiedere alla persona di camminare in linea retta per la stanza ponendo alternativamente il tallone di ognuno dei piedi a contatto con la punta dell’altro. Se possibile possiamo disegnare una riga per terra e chiedere alla persona di seguirla. Ancora più efficace sarebbe poter disporre di una sottile riga in rilievo sul pavimento, di spessore sufficiente ad essere appena avvertito appoggiandovi i piedi, così da poterla seguire senza dover guardare ‘dove si mettono’… si può in tal modo realizzare un passaggio, dalla dimensione dell’appoggio e della fiducia, a quella dell’equilibrio senza interruzioni, sostenendo la persona con le proprie mani disposte nel modo su esposto e procedendo a ritroso. Dopo le prime volte la persona lo farà da sola sostenendosi fissando un punto immaginario sulla parete.

Forse vale la pena insistere su un punto: il lavoro per dimensioni psicologiche che si sta proponendo, che hanno valenza fenomenica e quindi soggettiva, andrebbe sempre effettuata con metodo sia psichico sia corporeo in virtù di quell’Identità Funzionale scoperta da Reich e di cui in VgT siamo convinti sostenitori. Nello specifico, quando e se l’intervento di VgT non è possibile, si possono utilizzare interventi corporei alternativi ma che perseguono lo stesso fine. In questo caso la dimensione relativa all’equilibrio, che in VgT può essere indagata utilizzando la rotazione degli occhi, in alternativa può essere indagata proponendo, come appena esposto, una camminata molto lenta considerando che più questa lentezza è accentuata e più l’azione deambulante necessita di concentrazione ed equilibrio.

A questo punto si può procedere verso un ulteriore obiettivo, che è quello dell’integrazione:sempre camminando sulla riga si può proporre di associare ad ogni passo il movimento alternato delle braccia; poi aggiungere in associazione il respiro, con le fasi di espirazione ed inspirazione associate al movimento delle braccia, ed infine associare ulteriormente l’emissione di un suono ad ogni passo. In VgT possiamo proporre la respirazione simile all’ansimare del cane associata ad eventuali movimenti degli arti, ecc.

Si sono toccate le dimensioni dell’appoggio, della fiducia, dell’equilibrio e dell’integrazione. A questo punto la stabilizzazione della fiducia la si può realizzare con l’esercizio del pendolo in cui la persona, in posizione eretta, dopo aver sperimentato la propria tenuta dell’equilibrio, oscillando avanti e dietro senza superare i limiti della stabilità, si lascia cadere sulle mani del terapeuta, che sono tese a sostenerlo, prima davanti e poi di dietro, ad occhi aperti e poi chiusi.

I passi successivi saranno sempre condotti integrando i precedenti per i quali, volta per volta, saranno indagate le dimensioni dei vissuti, delle sensazioni e dei pensieri come suggerito dalla VgT.

La rabbia in Vgt è indagata con l’acting del mostrare i denti.

È un acting eccessivamente evocativo per il dap; un valido sostituto potrebbe essere un esercizio stressogeno in cui ci sia anche l’espressione di una vocale (in genere una –A-). Ci si può appoggiare con la schiena ad una parete e, con le ginocchia leggermente flesse, strizzare uno straccio o un asciugamanino tenendo le braccia tese davanti a sè.

Sarà cura del terapeuta fare attenzione a che le dimensioni già realizzate siano conservate in quanto il corpo/psiche (la mente) tende facilmente a tornare su modi che, abitudinari, sono più economici.

Un modo per conservare e stabilizzare l’equilibrio, la fiducia e l’integrazione è quello di fare seguire questo esercizio da quello in cui si effettuano le stesse azioni stando in piedi, distanti dalla parete, in posizione grounding.

Lo step successivo sarà ancora quello di replicare questo esercizio mostrando i denti e possibilmente emettendo tutti i suoni che si sente il bisogno di esprimere, specie quelli che la persona ritiene rabbiosi.

Dopo l’espressione della rabbia dovrebbe essere più facile, anche per i sofferenti di dap, sperimentare l’abbandono. Finalmente sono in presenza di qualcuno di cui si possono fidare e perciò molto più facilmente potranno sperimentare il pendolo e, alla fine, qualche esercizio di respirazione e rilassamento.

Questi suggerimenti pratici sono solo esempi di esercizi che possono essere proposti. Ognuno può affidarsi alla propria creatività che è ciò che distingue un terapeuta dall’altro: la capacità di offrire ai propri pazienti strumenti soggettivamente calibrati per la risoluzione e l’indagine di vissuti specifici.

 


 

[1] Lega italiana contro i disturbi d’Ansia, da Agorafobia e da Attacchi di Panico; sito internet: www.lidap.it

[2] “… l’esperienza percettiva costituisce un elemento portante per lo sviluppo della dimensione psicologica poiché la rappresentazione (prima ancora di ogni interpretazione e riconoscimento) è alla base della costruzione del significato”. (Ruggieri, 2011, pag. 41).

[3] “… segnaliamo che l’unità funzionale non è soltanto il neurone, ma anche i circuiti neuromuscolari, neuro ghiandolari (neuro viscerali e neuroendocrini). Queste sono dunque le strutture funzionali portanti da cui nasce la dimensione psicologica.” (Ruggieri, id., pag. 23)

[4] “L’Io gestisce sia funzioni fisiologiche, secondo moduli automatizzati, sia comportamenti di nuova formazione secondo valutazioni cognitive ed emozionali che caratterizzano la sfera soggettiva…. L’io dunque sarebbe la connessione funzionale delle connessioni recettoriali e programmatiche.” (Ruggieri, ib., pag. 41).

[5] Questa esperienza in realtà propone un vissuto che è esattamente il contrario dell’esperienza panica; ma per l’inconscio ciò che è esattamente il contrario per alcuni versi è la replica di una certa esperienza, così come accade nei vissuti onirici.

Bibliografia
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  • Ferri, G. (2013). “Vegetoterapia Analitico Caratteriale”. Rivista on-line:PsicoterapiaAnaliticaReichiana n.1.
  • Giannantonio, M., Lenzi, S. (2009), Il disturbo di panico. Milano: Raffaello Cortina.
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  • Nardone, G. (2002, 1° ristampa), Paura, panico e fobie. Milano: Ponte alle Grazie.
  • Navarro, F. (1998), Metodologia della Vegetoterapia carattero-analitica. Roma:Busen.
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  • Winnicott, D. W. (1991, 2° ed. Italiana), Dalla pediatria alla psicoanalisi. Firenze: Psycho

 Psicologo, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R., Consulente LIDAP (Lega Italiana contro i Disturbi d'ansia, da Agorafobia e da attacchi di Panico)